Dinanzi al radicarsi di una letteratura italiana della migrazione, si può ancora parlare di letterature nazionali tout court? Quanto ne hanno risentito le lingue, gli immaginari e il senso della tradizione?
Queste le domande che hanno innestato il dibattito letterario a Palazzo delle Aquile svoltosi ieri, mercoledì 12 ottobre, durante la prima giornata del Festival delle Letterature Migranti nell’ambito di Sconfinamenti, la sezione che prevede incontri in cui si ragiona su come letteratura, giornalismo, editoria e cinema si misurano con i nodi critici della contemporaneità e sconfinano verso altre forme o discipline.
E proprio di sconfinamento letterario, ma soprattutto linguistico, si è discusso e di come, ad oggi, non abbia effettivamente più senso parlare di letterature nazionali. L’uomo porta con sé un bisogno innato che lo porta a muoversi e spostarsi. L’opportunità dell’incontro non è solo possibile, ma fisiologica e necessaria: le lingue, in quanto fenomeno umano, non possono che rispondere a tali prerogative.
Di certo non casuale la scelta di Giovanni Saverio Santangelo, docente di Critica e Letterature Comparate all’Università degli Studi di Palermo, come presentatore e moderatore dell’incontro tra Pap Khouma e Gabriella Grasso, giornalista che da anni si occupa di libri che trattano i temi della migrazione.
Pap Abdoulaye Khouma è uno scrittore senegalese di nascita, italiano d’adozione, nonchè direttore di «El Ghibli», la prima rivista online di letteratura migrante. Giunge in Italia nel 1984 e si stabilisce a Milano, dove vive tuttora occupandosi di cultura e letteratura. Il suo esordio letterario, Io, venditore di elefanti, a doppia firma con Oreste Pivetta, è tra i primi esempi di romanzi scritti da migranti nella lingua del paese d’approdo.
Alla domanda sul suo personale atteggiamento nei confronti dei tre codici linguistici con i quali ha dovuto confrontarsi (wolof, francese e italiano), Khouma ha risposto: «Sebbene i miei libri siano scritti in italiano, non ho mai prestato particolare attenzione ad epurare la mia scrittura da qualsivoglia ibridismo linguistico, mi piace pensare alla mia lingua come un unicum che esula da barriere e frammentazioni di natura nazionale. In alcuni casi tradurre equivale a “snaturalizzare”».